Prosa, lirica, istituzioni, regia, rinascita: Teatro.it parla con il nuovo direttore del Teatro Nazionale di Genova alla vigilia del suo Don Giovanni che inaugurerà il Macerata Opera Festival.
Dal 28 ottobre 2019 Davide Livermore è il nuovo direttore del Teatro Nazionale di Genova. Livermore ha una personalità artistica e manageriale poliedrica. E’ un regista di fama internazionale, attivo sia nella lirica che della prosa. Ha lavorato nei principali teatri italiani oltre che per numerose istituzioni culturali straniere, da Seoul a Philadelphia, da Mosca a Bilbao. Dal 2015 al 2017 è stato Sovrintendente e Direttore Artistico del Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia. Da due anni un suo spettacolo inaugura la stagione lirica alla Scala di Milano.
L’emergenza Covid 19 ha rallentato la sua attività a Genova pochi mesi dopo il suo insediamento, ma ora è già ripartito. Ora lo aspetta l'attività nelle quattro sale dell'istituzione teatrale genovese: Il Teatro della Corte - Ivo Chiesa, Il Teatro Eleonora Duse, Il Teatro Gustavo Modena e la Sala Mercato.
Intanto, il 18 luglio la sua regia del Don Giovanni (Info e Date) di Wolfgang Amadeus Mozart inaugurerà il Macerata Opera Festival: poco prima di questa nuova avventura, Teatro.it ha incontrato Davide Livermore per parlare di arte e vita in questo momento di (parziale) ripresa delle attività dello spettacolo.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Come sarà il Teatro Nazionale di Genova targato Davide Livermore?
Ah, non lo so: lo scopriremo insieme. Posso però dire cosa faremo: avremo un’attenzione smodata per giovani. Abbiamo già iniziato a mettere in pratica questa apertura, con una serie di audizioni e provini per tutte le produzioni teatrali che abbiamo in cantiere.
Perché questa attenzione per i giovani?
Le famiglie teatrali ristrette non mi piacciono, non esistono. So che il teatro di prosa spesso mantiene questo tipo di situazioni, che a volte possono avere un effetto anche positivo. Alla lunga, però, la cosa si rivela non sana. Come avviene negli ambienti piccoli, dove la gente si accoppia con i parenti o comunque sempre con le stesse persone. Di fatto il sangue non circola. La mia famiglia viene da Newmarket, una zona dell’Inghilterra famosa per l’allevamento dei cavalli: gli incroci sono fondamentali per selezionare il vincente.
Il teatro come l’allevamento dei cavalli?
Anche, perché no? In natura questo concetto vale sempre. Io stesso possiedo due cavalli, che mi danno grandi soddisfazioni. Bisogna far girare il sangue, le idee. E’ giusto sviscerare fino in fondo le potenzialità di un gruppo artistico. Detto questo, noi non siamo un teatro privato o un gruppo artistico: siamo un teatro nazionale.
Qual e' la differenza?
Un teatro nazionale ha la responsabilità di dire alla gente cosa è il teatro da un punto di vista istituzionale. Questo significa che istituzionalmente abbiamo la responsabilità di parlare a tutta la famiglia teatrale italiana. Quindi in primis fare audizioni, non solo per i giovani, ma anche per ruoli. Una cosa di fondamentale importanza.
Bastano le audizioni a configurare un Teatro Nazionale?
No, certo. Voglio attenzione alla drammaturgia contemporanea. Ho chiesto un’attenzione smodata e maniacale sul testo: il che vuol dire che si vedranno poche riscritture, o meglio ancora nessuna.
Non ha paura delle critiche?
Io voglio le critiche. E’ capitata una cosa che mi ha molto colpito, non molto tempo fa. A cena parlavo di alcuni spettacoli di opera. In uno di questi, in cui ero coinvolto io, c’erano stati dissensi molto forti da parte del pubblico. Parlando di questa cosa, ho usato il verbo buare (fare buu per esprimere disapprovazione, secondo quanto riportato dal dizionario Treccani, ndr).
Mi sono reso conto allora che nessuno degli altri commensali, quasi tutti attori di prosa, conosceva il significato della parola buare. Ho capito in quel momento che non erano abituati a essere contestati dal pubblico. Il pubblico è sottoposto spesso a una serie di torture terrificanti, ma subisce e non bua.
E il motivo?
Lo spettatore non fa buuuu per un unico motivo: non conosce più la matrice degli spettacoli in scena e quindi non può fare un confronto a ragion veduta, esprimendo eventualmente un dissenso.
Io vado a buare la Bohème perché la conosco perfettamente e capisco se il tenore sta cantando male. Se io non so qual è la matrice, se non so come si devono fare le cose, come pubblico non posso esprimermi.
Questo cosa c’entra con la prosa?
Io vedo che nella prosa, oggi, c’è poca attenzione all'integrità del testo. Non in tutta la prosa, è chiaro: ma in generale è così. Questo avviene soprattutto nella prosa istituzionale, quella dei Teatri Nazionali: che dovrebbe però rappresentare anche la politica culturale dello Stato italiano.
Cosa bisogna fare?
Non si smembra un capolavoro per l’esigenza di un regista. E’ il regista che deve mettersi a disposizione del testo, non il contrario. In seguito, possiamo pensare di fare una serie di operazioni sulla traduzione, va benissimo. Anche su alcuni inserti, forse.
Però il pubblico deve sapere cosa è Macbeth, qual è la matrice originale. Noi dobbiamo fare in modo che il pubblico si riappropri delle storie e dei capolavori. Il pubblico deve riprendersi quelle parole.
In caso contrario?
In caso contrario stiamo semplicemente allevando tanti ego, smodati. Non stiamo facendo del teatro di regia, perché il teatro di regia vuol dire applicare la tradizione: significa portare le istanze poetiche di un testo classico nella nostra contemporaneità. Il teatro di regia è un grande lavoro di traduzione, una specie di decoder. Ma questo non vuol dire manipolare il testo.
Anzi, è il contrario: entriamo poeticamente all'interno del testo, per fare in modo di portarlo a oggi. Per fare sentire oggi la potenza drammaturgica di questo testo, per capire cosa significa questo testo nella nostra società odierna.
Come si raggiunge questo scopo?
Occorre un’attenzione maggiore al testo. Non bisogna desiderare di fare un saccheggio dei testi originari, bisogna cercare la restituzione della matrice. Se uno ama particolarmente un soggetto e pensa che sia fondamentale riprenderlo, può fare come Francesco Maria Piave e Giuseppe Verdi: per questo prima citavo Macbeth. Prendi il soggetto classico X, e lo riscrivi nel modo in cui lo vedi tu: questo è tutto un altro discorso.
La riscrittura ha un senso: ma se io faccio Shakespeare, devo fare Shakespeare. Oppure lo riscrivo completamente e faccio il Macbeth di Livermore: prendo il plot e lo riscrivo. Lo adatto a quelle che sono le mie esigenze poetiche, i miei desiderata artistici ed espressivi.
Soddisfo la mia necessità di raccontare la società di oggi utilizzando il plot di Macbeth: magari perché mi parla di un aspetto che è fondamentale per me o per il nostro tempo.
E’ questo che intendi quando parli di responsabilità da parte di un Teatro Nazionale?
Esatto. Riportare alla matrice vuol dire educare le persone: il pubblico, ma anche gli attori. A me piacerebbe moltissimo avere una platea piena di spettatori in grado di buare, perché conoscono il testo piuttosto che l’organizzazione del pensiero narrativo in una determinata opera.
Perché ti piacerebbe molto?
Andare a teatro non può essere ridotto a bere l’acqua che cade dal cielo oppure le parole pronunciate da un balcone. Dobbiamo essere attivi nell'educazione della gente. Poi, ovviamente, non è detto che tutti i buuu siano giusti a priori: ma deve esserci questo tipo di libertà e di coscienza.
Quindi tu vuoi fare teatro solo con i classici?
Voglio fare esattamente il contrario. Dopo avere creato la coscienza di quello che sono le matrici, e riportato l’attenzione sui classici, bisogna dare un’ampia apertura sulla contemporaneità, commissionando lavori contemporanei di alto livello.
Di solito non avviene?
Non bisogna considerare la drammaturgia contemporanea come una cosa da neodiplomati, giovani drammaturghi. Non è sempre così. Sarebbe molto bello vedere lavori contemporanei che abbiano una potente dignità, a tutti i livelli. Fatti da giovani o anche da meno giovani. Dove sta scritto che i classici competono solo ai senatori del teatro, o viceversa?
Lirica e prosa, un rapporto spesso conflittuale.
Il teatro dell’opera è il teatro italiano. Bisogna partire da questo. Possiamo anche fare i giovani che hanno un problema edipico con papà, ma il dato di fatto è un altro.
Noi nella prosa spesso rincorriamo Jerzy Grotowski e Tadeusz Kantor. Non sempre, ma spesso. Invece nel mondo rincorrono Verdi e Puccini. La sintesi è questa. Forse un po’ brutale, ma è questa.
E che può fare il Teatro Nazionale targato Livermore?
Noi vorremmo progettare cose, nuovi lavori, nuovi prodotti in accordo con i teatri d’opera. Prima di tutto per la potenzialità produttiva che hanno i teatri d’opera; e poi perché siamo davvero figli dello stesso Abramo e della stessa Sara, figli dello stesso ceppo. Il teatro italiano è il teatro dell’opera, nel senso che l’opera nasce con gli attori. Claudio Monteverdi scriveva per compagnie di attori straordinari, e Goldoni ha scritto più libretti d’opera che prosa.
Come ci si arriva?
E’ interessante immaginare di poter fare riemergere, in senso veramente sperimentale e avanguardistico, quella terra di mezzo che congiunge la parola cantata alla parola parlata. Anche dopo la pandemia, perché no? La storia insegna che dopo le grandi pestilenze del passato ci sono stati periodi di rinascita straordinari.
Gli artisti hanno raccontato la nuova situazione in nuovi modi. La clausura forzata ha dato nuovo impulso all'era digitale. Il teatro deve entrare in modo potente in questa nuova realtà, come ha sempre fatto, per raccontare questo nuovo tempo.
Questa osmosi tra lirica e prosa è già di per sé molto rivoluzionaria: ma dal punto di vista dello spettatore permane una dicotomia perfetta, molto italiana. Sta a noi creare qualcosa di straordinario e di rivoluzionario. Paradossalmente noi italiani paghiamo questa full immersion nella grande bellezza, nella grande arte, nel grande passato, le cui testimonianze abbondano ovunque in Italia. Questo non aiuta a mettere le cose in prospettiva, a metterle nel giusto valore. Capendo così, tra le altre cose, che lirica e prosa sono due facce dello stesso racconto.
E come affronta questa sfida Davide Livermore?
La verità è che mi sto guardando semplicemente indietro, ed è sempre così: quando si vuole innovare, bisogna avere i piedi saldamente piantati nella storia.
Io contesto a molti gruppi teatrali proprio questo: fanno presunta innovazione, sfruttano la trovata geniale, raccolgono il glamour del momento, ma non hanno radici e quindi non possono innovare davvero. L’antico è la cosa più innovativa che possiamo portare nella nostra contemporaneità.
Ti accuseranno di essere un passatista
Ma io non intendo l’antico come un museo. Io dico che bisogna avere coscienza e cultura di quello che è stato. Alcune grandi idee di un tempo, se riportate nella contemporaneità nel modo giusto, possono diventare grandissime rivoluzioni culturali.
La tua sfida è artistica o manageriale?
Io non mi sono proposto: a cercarmi per coinvolgermi in un progetto molto interessante sono stati gli amministratori del Teatro Nazionale di Genova. Non faccio parte della politica. Quello che ho conquistato nella mia vita, me lo sono guadagnato con il lavoro: dai camerini di Imperia, alla Scala di Milano, alla Sydney Opera House. Poi è chiaro che ciò che faccio può piacere o no, come sempre accade nell'arte.
Quindi sei soprattutto un artista
Ovviamente. Alla conferenza stampa di presentazione, davanti al sindaco Bucci e al governatore Toti ho detto: sono molto fiero che voi per questo ruolo abbiate scelto un artista. Fino a quando ci saranno queste splendide condizioni per lavorare, io lavorerò a questo progetto. Poi, vedremo.
Cos’è per te il teatro?
Amo il teatro come il luogo pubblico dove avviene la restituzione del sapere. Che poi è quello che voglio fare. A me piace comportarmi come le persone migliori che ho incontrato hanno fatto con me.
In carriera hai fatto tutto: ballerino, cantante, direttore luci, scenografo, sceneggiatore, regista. Ma cosa ti piace di più?
Il prossimo. Il prossimo lavoro sarà quello che mi piace di più. Ma ora non posso sapere quale sarà. Un artista che dice cosa gli piace fare, non ha capito nulla. L’artista è come un tubo: non deve entrare quello che piace a lui, ma quello che è destinato al pubblico. Sta all'artista elaborare e proporre poi al pubblico questo materiale.
Perché questa versatilità estrema?
So che si tratta di una cosa che va dalla nevrosi, alla malattia mentale, alla bulimia. Posso dire che sono innamorato della vita, e che sono grato alla vita per quello che mi ha dato. Di certo, le occasioni che mi sono arrivate le ho sapute sfruttare tutte. Tipo: buona la prima!
Ha fatto scalpore la tua Carmen ambientata nella Cuba castrista; quasi come l’Attila ambientato durante la seconda guerra mondiale, con un treno a grandezza naturale in scena.
Parliamo della Carmen e della famosissima Habanera. Quando è stata composta l’opera, dell’Avana in Europa si sapeva molto ma non moltissimo. Nell'immaginario era il luogo del sesso e della perdizione, qualcosa che la rigida educazione europea non poteva permettere. Un altrove dove rendere legittime le pulsioni: che nella nostra cultura c’erano ed erano vitalissime, ma nascoste nella nostra educazione.
L’Italia per Shakespeare era il luogo del legittimo, era un gran gioco dell’amore: un luogo in cui, nella proiezione del popolo inglese, poteva avvenire tutto. E i serragli in Anatolia? Immaginate cosa potevano essere per un europeo che la sera chiudeva bottega e andava a teatro: era un viaggio nella trasgressione, in un luogo della fantasia.
La mia Carmen vive in un luogo dove è alla pari degli uomini, dove può essere guerrigliera, contrabbandiera. Lo scenario cubano si adatta perfettamente a incarnare questa potenza rivoluzionaria femminile, volitiva nella sua provocazione sessuale esplicita. La rivoluzione cubana, con la sua estetica, ha offerto un fianco naturale a questo gioco.
Ora al Macerata Opera Festival presenti il tuo Don Giovanni
Mi sono chiesto cosa significa il mito di Don Giovanni nella nostra contemporaneità. Troppo sbrigativo puntare il dito solo sull'aspetto della libertà sessuale. Pensiamo a cosa è successo il giorno della prima al Teatro delle Nazioni di Praga il 29 ottobre 1787, con il pubblico che alla fine cantava viva la libertà. Ci furono lettere di nobildonne che scrissero: “Queste note hanno visto la fine del mondo”.
Due anni dopo, in Francia le teste cadevano. Il libertinaggio di Don Giovanni è solo un aspetto di un quadro più complesso: il gioco della libertà sessuale è inestricabilmente legato alla pulsione vitale rivoluzionaria, di cui il sesso è solo l’ultima delle sue realizzazioni.